Ho fatto il primo viaggio a 18 anni, in Brasile presso una piccola associazione di volontariato. Appena tornata avevo voglia di sancire questo evento con un tatuaggio. Sentivo che non era un capriccio ma proprio un bisogno forte di portare sulla pelle un’esperienza che mi aveva profondamente segnato interiormente. Dopo altri viaggi mi è capitato di sentire questo bisogno… ogni tatuaggio aveva un significato profondo ed era preceduto da qualcosa di molto profondo avvenuto dentro di me durante il viaggio. In totale ne ho 3, forse davvero dopo ogni viaggio particolarmente significativo, ma non dopo ogni viaggio.
Col tempo ho potuto scoprire che quello che mi spingeva a tatuarmi apparteneva anche anche a tantissime altre persone. Tantissimi viaggiatori che al ritorno o direttamente durante il viaggio sentivano l’impulso a scrivere sulla propria pelle, attraverso simboli più o meno espliciti, un cambiamento interiore profondo e significativo.
“Le evoluzioni dei viaggiatori e i loro cambiamenti spesso non vengono considerati al momento del ritorno al paese d’origine. Non si sa molto di ciò che hanno fatto, ancora meno dell’intensità delle esperienze vissute e così essi, se non riescono a raccontarsi, finiscono facilmente per non sentire l’accettazione del proprio mondo di provenienza. Mentre nelle culture che usano i riti iniziatici, ad esempio, la persona che ne prende parte, al ritorno porta con sé, oltre a cambiamenti interiori, anche cambiamenti fisici, come tatuaggi o elementi di ornamento.
È esattamente per lo stesso bisogno, a parer mio, che molti durante un viaggio, o immediatamente dopo, si tatuano; marcano sulla pelle una testimonianza dell’esperienza, un segno evidente che differenzi ciò che sono ora da ciò che erano prima. Una traduzione in inchiostro delle emozioni vissute e del processo di evoluzione interiore.
Ritengo che questo bisogno di tatuarsi si leghi perfettamente a uno dei concetti cardine dell’antropopoiesi secondo cui l’essere umano ha la necessità intrinseca di esprimere se stesso utilizzando il corpo come espressione. Il termine è stato coniato dal grande antropologo Francesco Remotti (che ho avuto la fortuna di avere come professore all’università nei miei corsi di antropologia).
«Se si tratta di inventare e costruire umanità, è inevitabile che questa venga “in-corporata”, “in-segnata” sul corpo ovvero che il corpo ne parli, ne sia la manifestazione tangibile, visibile» (Remotti, 2007, p. 32).
È tipico del viaggiatore che ritorna trovarsi a pensare: «Sono tornato, eppure agli occhi di tutti sembro lo stesso. Ma io non sono più quello di prima, sono altro, perché non lo vedete?».
Scrivere sulla nostra pelle, in un impasto di inchiostro e simboli è sicuramente un buon modo per urlare al mondo: «Eccomi, sono tornato! Sono sempre io ma sono diverso: adulto, consapevole, e ora, finalmente, lo so».
Testo tratto dal mio libro Travel Counseling: il viaggio che cura. Viaggi, cammini e percorsi alla scoperta di sè
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